Era insopportabile, gridava tutto
il tempo.
Sette del mattino, fuori è buio,
anche dentro di me.
Accendo una sigaretta, faccio il
caffè e riscaldo il latte per mia figlia.
Una figlia nata da un’unione non
voluta, da una notte, da un incidente.
Il latte deve essere caldo, ma non
troppo, ho solo 23 anni pensavo, e sono qui, in questo appartamento che
odio, con le tende gialle, le uniche, che sono riuscita a comprare con i pochi dollari
che ho messo da parte.
Non voglio questa vita, non voglio
queste tende, e non voglio svegliarmi così presto la mattina.
Lei continua a piangere, continua
a urlare, ed io cerco di calmarla, ma non è cosi, ed io sono stanca, stanca e
depressa.
Se solo avessi chiuso quelle gambe
quella maledetta notte.
Ore sette e dieci del mattino, il
latte è pronto, mi avvicino alla culla, la prendo in braccio, la cullo, lei mi
guarda, come se fossi un estranea, i suoi occhi sono diretti, freddi, e non mi
lasciano respirare.
Ecco il latte, questo è quello che
vuoi da me, e questo è quello che ti posso dare, ma smettila di guardami in
questo modo.
Siamo distanti, siamo madre e
figlia, siamo due persone che vivono nella stessa casa, ma siamo due estranee.
Ti lascio bere il tuo latte, ti
appoggio nella culla, cerco di farti addormentare, forse un po’ di pace.
Prendo il mio caffè, le mie
pillole, e un po’ di vodka, ma tu continua a gridare come se rimproverassi di
una vita di merda che sto conducendo e di una altrettanta vita di merda che ti
sto facendo vivere.
Prendo un cuscino, ti prendo in braccio,
e dopo qualche minuto, tu non piangi più.
Fuori è giorno, apro la porta, la
chiudo alle mie spalle e mi siedo sui gradini del palazzo, lei non piange ora,
pensai, non più!
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